L’edificio, opera di Claudio Nardi, si staglia in un contesto urbano otto-novecentesco vicino al centro: l’architettura, slanciata e dalle tonalità neutre, si compone di superfici che paiono atleticamente rincorrersi verso l’alto, quasi immateriali, impalpabili. In luogo di calce o pietra si è pertanto privilegiata una materia leggera che, frammista a colori tenui e alla luce naturale su di essi rifratta, evoca un senso di trasparente e rassicurante incertezza. Più aria che terra, più slancio che stasi. Più domanda errante che ancorata risposta.
L’articolazione complessa delle norme che definiscono distanze, altezze e affacci non solo ha dettato il limite entro cui muoversi, ma ha soprattutto ispirato il disegno delle forme del nuovo edificio, coi suoi cortili interni, le sue terrazze, le logge e i collegamenti a ponte, trasparenti, come sospesi tra le due unità che costituiscono il complesso. Dall’aspetto esteriore lieve eppure compatto, l’interno di Mandragora si affaccia invece, fedelmente alla migliore tradizione mediterranea, su cortili appartati e luminosi. Gli spazi operativi, illuminati così di luce naturale dalle più diverse angolature, sono fluidi, comuni e al tempo stesso intimi, in ogni punto legati per un affaccio al verde dell’esterno.
L’edificio, sviluppato su tre livelli, di cui uno fuori terra destinato al magazzino, comprende al piano terra l’area operativa, gli uffici, hall e garage; al primo piano ufficio e sala riunioni. Nato sulla traccia di un vecchio insediamento artigianale, ne conserva l’impronta, come dovrebbe accadere per ogni trasformazione urbana stratificata su un solco preesistente. L’equilibrio della sua architettura richiama i principi su cui Mandragora operativamente si fonda: la chiusura di vetro esterna, i vuoti che si aprono all’interno, i passaggi percorsi dalla luce, il movimento in verticale dei volumi sono grafie che parlano di trasformazione e di apertura, ovvero di una ricerca, la nostra, che è dinamico “porsi in ascolto”.